In ricordo di Carlo Moiraghi
Grande Maestro, con la rara capacità di andare oltre, oltre l’oltre.
“Vivo, gemello di un vivo, nel ventre di un vivo” hai saputo guidare, consigliare, aiutare, insegnare e curare su questa terra chiunque incontrassi sul tuo cammino.
Desideriamo ricordarti così, mentre ti rechi a curare a Calcutta i sofferenti di Kalighat. Solo tu sapevi farlo con quella completezza d’animo che ti portava a entrare in contatto con la loro anima e a farli riavere, migliorare, a farli anche ridere, a volte.
Ti piaceva questa foto, ti piaceva il momento in cui l’avevamo scattata, stravolti e felici di essere lì, lì e non altrove.
Ti ricordiamo quando praticavi qigong con taluni malati in varie parti del mondò, e riuscivi così a far riemerge in loro la più pura vitalità, prima via di ogni cura.
Ti ricordiamo oggi con queste tue parole tratte dal tuo testo Siddharta e il Sutra di Diamante.
Parasamgate, Oltre l’Altra Sponda
In campagna, sulla riva di un fiume. Davanti a noi l’acqua scorre, trasparente e palpabile, fresca. Ci immergiamo, la corrente, ben viva, ci accoglie e ci porta con sé. Qua e là distingui mulinelli rotondi. A tratti, al pelo dell’acqua, distingui vortici e spire ove l’acqua si fa nebulosa ed opaca. Sappiamo bene che non perdonano. Se ti catturano vai presto giù fino al fondo. Ci puoi annegare. Non a pochi è capitato. Sostenuti dalla corrente procediamo decisi, galleggiando verso il fondo valle.
Altrove l’acqua è tranquilla. Ad una larga ansa prendiamo terra di nuovo.
Chini sulla riva ora osserviamo. Di qua e di là del fiume, la terra, e le due sponde. Il fiume è immenso. Sappiamo bene come in realtà di per sè il fiume non ci sia, non esista, come esso non abbia una sua vera forma, una sua struttura, un suo corpo palpabile. Il fiume non è che acqua che scorre. D’estate, quando il tempo è arido, vi è solo terra. Allora non vi sono più né sponde né fiume. Un fiume in secca è zolle secche, niente altro. Pure, ora, pur non esistendo nei fatti, quel fiume in piena è la viva potenza della natura. Nulla lo può fermare. L’acqua, si sa, è la vitalità stessa dell’esistenza. Il fiume dunque al tempo stesso esiste e non esiste, proprio come l’esistenza. Con questo pensiero guardiamo oltre l’acqua.
Oltre questa distesa vorticosa a tratti appena appena distinguiamo, laggiù, l’altra sponda. Ora non si vede che in parte. Ora per nulla. Ci accorgiamo che anche prima, quando ci sembrava di distinguerla, in realtà non la vedevamo davvero, piuttosto la immaginavamo, la sognavamo. Forse solo semplicemente ne percepivamo, sospettavamo, l’esistenza e le forme. Aguzziamo lo sguardo. Sappiamo bene che c’è. Deve esserci e quindi c’è. Dove c’è un fiume, si sa, ci sono due sponde. Una delle due è certo questa, dove ora tutti quanti noi vivi respiriamo. L’altra deve essere laggiù. Taluni, più alti, dallo sguardo più acuto, anche ora ne distinguono le linee contro l’orizzonte, un profilo che facilmente confondi con le nuvole e il cielo.
Noi, certi istanti l’altra riva la distinguiamo precisa, altre volte non sappiamo ben dire, non siamo sicuri, forse la vediamo, forse la immaginiamo soltanto, comunque siamo certi che esista, laggiù, da qualche parte, forse lontana lontana, forse più vicina di quanto ci paia, forse quasi già qui. Ma come raggiungerla, se neppure di preciso sappiamo dove sia, di quale consistenza e spessore sia il suo terreno?
Prajna Paramita in sanscrito indica la Perfetta Comprensione che Giunge Oltre L’altra Sponda. Ecco come raggiungerla.
Prajna, indica la Comprensione, la Saggezza, la Sapienza.
Paramita indica la perfezione, l’unico modo per giungere oltre l’altra sponda, Parasamgate, l’avere guadato quell’acqua, quest’acqua, l’essere in salvo sulla riva.
Dana, Shila, Kshanti, Virya, Dhyana, Prajna.
Sei sono le Paramita, le Perfezioni in grado di tanto, sei semplici regole, le stesse di ogni cultura, la Carità, la Moralità, l’Accettazione, il Vigore, la Meditazione, la Sapienza, e quest’ultima Prajna, la Sapienza, è l’occhio e la testa, la materia e la mente, delle altre cinque, che senza di lei rimangono immobili, vuote, di qui il termine Prajna Paramita.
Sapienza forse non è il termine adatto nel nostro odierno linguaggio ad indicare Prajna, suona troppo colto, troppo distante e saputo.
Fra Saggezza e Comprensione scelgo quest’ultimo, Comprensione, che è in fondo, dovrebbe essere, almeno, l’effetto primo della Sapienza.
Le Sei Perfezioni permettono dunque di giungere sull’altra sponda del fiume, e ancora più in là, oltre l’altra sponda, e oltre ancora, dove la terra non è più sponda di fiume, e oltre ancora, dove non esistono più la differenza e la distanza fra terra e fiume, perché non vi è più alcun fiume, né alcuna terra. Come concepire un simile luogo, dove scoprirlo, che nome dargli? E’ la Terra del Risveglio, insegna Siddharta, il Risvegliato.
E noi ascoltiamo.
Vario secondo le anse del suo decorso, mutevole secondo climi e stagioni, discendendo lungo la verde valle il fiume si fa ora placido, ora immane, ora soave, ora infido. Lungo la riva le nostre orme nella terra secca ne seguono pari pari il decorso, fino a che il delta si apre nel mare. Immobili sulla sponda osserviamo l’azzurro e l’azzurro, il blu e il verde, e i vari toni dei grigi. Dov’è ora l’altra sponda? Il mare è un catino infinito. Sappiamo bene come non vi sia altra sponda, ma altre innumerevoli sponde. Innumerevoli sono i viventi, innumerevoli le Terre del Risveglio, tante quante noi vivi, e ci attendono, là, qua, oltre questo oceano, oltre noi stessi. Dorate spiagge sabbiose, infinite risacche, irte scogliere, sassaie argentate, pacifici estuari rigogliosi. Ci attendono ma pochi, davvero pochi vi giungono. Davvero pochi e tutti quanti al loro tempo opportuno. Oggi i più restano qua, e neppure vi badano a quelle linee cinerine laggiù, diseguali e lontane e sfuocate. Badano piuttosto a ciò che è qui, a ciò che puoi toccare con mano, a ciò che puoi avere, a ciò che già hai. Solamente qualcuno, taluni attimi, si ferma a sbirciare oltre l’orizzonte. Con uno sguardo cerca la terra, la sua terra, il suo Risveglio lontano. Qualcuno si muove. Qualcuno si imbarca, qualcuno prende a nuotare. Più d’uno, si dice, camminò sulle acque. Taluno, pare, volò.
E v’è chi rimase seduto sull’arena finissima. Guardava ove la sabbia si tinge di mare e dove il mare si tinge di cielo e dove il cielo si tinge di sabbia, tutt’intorno. E oltre. E oltre l’oltre. Fini grani d’arena presero a parergli perle. Divennero perle. Da sempre lo erano.
E lui si avvide di come ogni perla era un mondo, ed ogni mondo una perla, ed ancora di più, ogni mondo era un finissimo granello d’arena. Lo è infatti. Da sempre lo è. In un grano d’arena, in una perla distinse specchiato il suo volto. Ma lui non era più lui. Si accorse che mai lo era stato. Poi venne un raggio di sole. E lui, non più lui, lui, mai stato lui, lui, che non si era immerso in quel mare, si immerse in quel raggio. Fu in viaggio. Comprese che già lo era da sempre. Chiuse gli occhi e seguì ciò che vide. Vide, non vide, vide. Sentì, non sentì, sentì. Poi non sentì più. Non ci fu più né vista, né raggio di luce. Un caldo dilatarsi di un poro della sua pelle gli parve esperienza prossima all’infinito. In quel poro respirò l’infinito. Poi lo espirò. Si accorse che da sempre così respirava. Da allora non ci fu più pelle alcuna nè alcun suo respiro. Comprese che mai erano esistiti e pure, al tempo stesso, da sempre e per sempre esistevano. Fra esistenza e non esistenza non vi era più contraddizione, e nessun disaccordo, divario e distacco e distanza neppure, comprese che mai ve ne erano stati, unicamente totale accordo assoluto, coincidenza completa.
Sorrise, e comprese che esistenza e non esistenza sono le due rosee labbra di un’unica bocca. Scoprì così come l’universo, esistenza e non esistenza riunite, sono, siamo, un sorriso. Un sorriso che non appartiene ad un volto, né ad un individuo, persona, entità. Un sorriso. Ebbe ben chiaro come non si trattasse del suo sorriso. Era piuttosto il sorriso ad assorbire ogni sua identità e impressione. Questo era tutto. Soprattutto non ci fu, mai più, alcunché che sentì “suo”, mai più, e non sentì mai più nulla che riferisse a quel “se stesso” che per tanti anni l’aveva accompagnato. Il significato, il vissuto di “sé”, l’aveva infatti da tempo scordato, e la parola pure. Quanto alle sponde, nulla di nulla, non ci pensava più del tutto da varie esistenze. Del resto, pensare, che termine vano, parziale, mortale. Lui visse della sola purezza del cielo di quell’attimo in cui, inspirando per l’ultima volta che vi fece caso, l’aria fresca lo punse di vita giusto sull’orlo delle narici. In quella purezza visse, da allora, e si accorse che da sempre vi era vissuto. E ancora, anche ora, ne vive.
Paola Poli e tutto il Direttivo FISTQ